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Appello sulle gravi criticità della legge sull’autonomia differenziata

In queste settimane, molti costituzionalisti stanno prendendo posizione sulla legge Calderoli. Di seguito pubblichiamo il testo dell’appello che ha, come primi firmatari, Cheli, De Siervo, Angiolini, Azzariti, Cabiddu, Caretti, Zaccaria e Calvano.

 

Appello sulle gravi criticità della legge sull’autonomia differenziata (n.86/24)

La legge n. 86 del 2024 su “l’autonomia differenziata” delle Regioni presenta gravi criticità dal punto di vista costituzionale.
Questa legge è presentata come una legge di “attuazione costituzionale” dell’art.116, comma 3, Cost., disposizione aggiunta nel quadro della riforma del Titolo V della Costituzione approvata nel 2001, senza appropriato coordinamento con l’art. 117 Cost. Il testo è stato approvato da una maggioranza di centro sinistra ma è stato confermato dal successivo referendum.

I costituzionalisti si sono divisi nel giudizio su quella riforma ed in particolare sull’art.116 comma 3. Quella disposizione è stata giudicata discutibile dal punto di vista dell’ampliamento della articolazione delle competenze regionali ed anche per l’evidente contrasto con il primo comma dello stesso articolo (che impone la legge costituzionale per l’approvazione degli statuti speciali) e ritenuta preoccupante in chiave di eguaglianza e di parità tra cittadini nell’esercizio dei diritti costituzionali.
Oggi, un presunto intervento legislativo “di attuazione” come quello realizzato con la legge Calderoli risulta del tutto fuorviante rispetto ad una norma costituzionale, che si limita a prevedere “su iniziativa della Regione interessata” la possibilità di un limitato ampliamento dei poteri di una singola Regione per soddisfare specifiche esigenze territoriali e in via di eccezione rispetto alla disciplina del Titolo V della Costituzione.

La legge n. 86 del 2024, infatti, tende a porsi come una legge che definisce i principi, esplicitamente qualificati come “generali” (art. 1, co. 1), per “l’autonomia differenziata” delle singole Regioni, incentivandone l’adesione alle procedure di cui al terzo comma dell’art. 116 della Costituzione. La legge risulta così improntata ad un principio antitetico rispetto a quello del titolo V: sembra voler far diventare regola quella che nell’art. 116 è chiaramente concepita come eccezione.
Del resto, nell’esperienza costituzionale italiana anche la differenziazione delle competenze delle Regioni speciali è stata introdotta solo per le particolarità di situazioni politiche contingenti, tra l’altro caratterizzate da spinte secessionistiche. Quindi alla base di quelle autonomie speciali risulta chiaro un concetto di eccezione rispetto ad una regola che va in altra direzione.

Non c’è niente, nell’art. 116 ed in genere nel Titolo V che possa fornire base ad una legislazione che tende a costruire “l’autonomia differenziata” come una sorta di “principio generale”. A questa distorsione di fondo si accompagnano altre forzature. Secondo Costituzione “L’autonomia differenziata” dovrebbe essere attuata con atto del Parlamento, e in particolare con una legge approvata a maggioranza assoluta, per evitare l’emarginazione delle forze politiche non appartenenti alla maggioranza di governo.

Con il pretesto di semplificare e di incentivare le “iniziative” delle singole Regioni, (ma in realtà complicando le cose contro lo spirito della Costituzione) la l. n. 86/24 conferisce al Governo un peso preponderante per giungere “all’autonomia differenziata”. I ruoli vengono capovolti: al Parlamento si riconosce solo il compito di “ratificare” l’”Intesa” con la Regione sostanzialmente decisa dal Governo.

Il Governo, oltre ad avere la guida dell’Intesa con la Regione, ha anche il ruolo di stabilire, prima con decreti legislativi delegati, privi peraltro di principi e criteri direttivi, i livelli essenziali per la garanzia dei diritti civili e sociali, che dovrebbero vincolare, anche secondo la legge Calderoli, le Regioni pur dotate di “autonomia differenziata”.

Tutto questo sconvolge l’ordinato assetto delle fonti normative. Secondo l’art. 117, co. 2 lett. m) la determinazione dei livelli essenziali dei diritti civili e sociali spetta al legislatore statale, con quella competenza legislativa esclusiva che, per la giurisprudenza costituzionale, è una competenza “trasversale” in grado di vincolare la competenza regionale in qualunque materia.

A questo si deve aggiungere che la legge Calderoli non solo ha attribuito ad atti del Governo la fissazione dei livelli essenziali delle prestazioni, ma ha perfino voluto sottrarre talune competenze regionali all’osservanza dei livelli essenziali dei diritti civili e sociali.

È doveroso inoltre sottolineare che manca un momento di chiara e complessiva valutazione dei costi dell’autonomia differenziata. L’idea che si tratti di una riforma a costo zero è priva di fondamento. In realtà il calcolo dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e politici comporterà inevitabilmente lo stanziamento di un ammontare molto consistente di risorse per il loro finanziamento. Non a caso questa operazione è sin qui rimasta lettera morta, in assenza di una seria valutazione sul suo impatto sul livello complessivo della spesa pubblica. Non solo, ma, ove i lep fossero davvero definiti, la loro attuazione accentuerebbe il divario tra Regioni ricche e Regioni povere, in assenza di garanzie certe circa l’istituzione di meccanismi di perequazione.

Tutto questo non ha nulla ha a che vedere con “l’autonomia differenziata” dell’art. 116 Cost. ma, prima ancora, non ha a che fare con un’autonomia regionale autenticamente realizzata.

Alla base dell’intera impalcatura del nostro regionalismo è posto un principio di solidarietà e di leale collaborazione. Il disegno che scaturisce da questa legge è diametralmente opposto. Spacca l’Italia: divide le Regioni e costruisce i presupposti per una diversificazione delle prestazioni essenziali garantite ai cittadini. Fonti autorevolissime (Banca d’Italia, Ufficio parlamentare di bilancio, sindacati ed associazioni laiche e cattoliche etc.) hanno affermato che l’autonomia differenziata è un modo per creare due Italie: una prospera e l’altra abbandonata a sè stessa, oltre a mettere a rischio il bilancio dello Stato e la stessa economia nazionale. Infine, uno Stato arlecchino renderebbe incerta l’interpretazione delle norme applicabili per le pubbliche amministrazioni, le imprese e i cittadini.

L’autonomia differenziata così deformata, avvicinerebbe le Regioni italiane a tanti piccoli Stati in competizione tra loro che rimetterebbero in gioco l’unità nazionale. L’art. 5 della Costituzione, nel riconoscere le autonomie, sancisce il principio dell’unità ed indivisibilità della Repubblica anche come corollario e presidio della tutela dei diritti fondamentali (art. 2), dell’eguaglianza (art. 3) e del principio lavoristico (art. 4)”.

La conseguenza inevitabile sarebbe il sacrificio dell’eguaglianza e dell’uniformità dei diritti politici, civili e sociali: in una parola dei diritti fondamentali dei cittadini. L’Italia per fortuna, non intende collocarsi in una simile prospettiva storica.

L’Italia, come altri Paesi Europei e Occidentali, ha invece esigenza di un sistema di autonomie che valga a rendere l’azione dei poteri pubblici più efficiente e più rispondente alle reali esigenze dei cittadini al fine di realizzare progressivamente l’effettiva eguaglianza e le pari opportunità di progresso sociale.

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